Ricorderemo il 2020 come l’anno in cui la lotta contro la fame del mondo ha vinto il Nobel? Se chiediamo a Raj Patel, la risposta sembra essere piuttosto negativa. Nella giornata mondiale dell’alimentazione, a una settimana dalla consegna del premio nobel per la pace 2020 al World Food Programme (Wfp), lo scrittore e attivista, autore di I padroni del cibo dice la sua a margine dell’intervento al convegno Bologna Award 2020.
Il Nobel per la Pace al World Food programme è un buon risultato?
Penso sia positivo aver richiamato l’attenzione mondiale sul problema della fame e certamente il World Food Programme fa un lavoro molto importante per aiutare le persone a sopravvivere alla fame. Però non dovrebbe essere compito suo debellare la fame nel mondo. La fame è una combinazione di povertà, di crisi climatica e di effetti del capitalismo predatorio, per questo è necessario andare oltre il modello della gestione dell’emergenza. Anzi, per me il problema è proprio che il World Food Programme sia diventato così necessario oggi per gestire le emergenze, perché è una conseguenza della distruzione sistematica della capacità del pianeta di produrre cibo in modo sostenibile e dell’aumento delle disuguaglianze.
Quindi lei a chi l’avrebbe dato il Nobel per la Pace?
Al movimento internazionale dei contadini della “Via Campesina”. Il movimento raccoglie 200 milioni di membri su scala globale, combattono contro la fame nelle zone rurali, ma contemporaneamente contro l’inquinamento e contro il patriarcato, oltre ad adottare pratiche rispettose della biodiversità. Io vorrei che il comitato per il Nobel smetta di concepire i sistemi alimentari come una cosa cui dare attenzione solo quando sono in crisi, e smetta di concepire i contadini come persone che hanno bisogno di carità, ma li veda invece come portatori di soluzioni nuove. L’obiettivo non deve essere quello di “gestire” la fame o “gestire” il cambiamento climatico, ma di mettere fine a queste cose. E questo si può fare solo con un impegno politico. La domanda da farsi è: come redistribuire la ricchezza?
In questo quadro, quanto ha inciso la pandemia di Covid-19?
Di certo ha peggiorato le cose. Stiamo registrando tassi di fame catastrofici in tutto il mondo. Ma la pandemia ci ha anche mostrato che le comunità che hanno sistemi economici e sociali più attenti alla cura dell’altro hanno fatto molto meglio nel contrasto della pandemia rispetto alle comunità con un’impostazione essenzialmente neoliberista, dove le persone devono cavarsela da sole. Penso, ad esempio, alla più grande baraccopoli del mondo di Mumbai, Dharavi, che è riuscita a contenere il virus molto meglio degli Stati Uniti. Sempre in India, la regione povera del Kerala, che investe molto nella sanità pubblica, ha fatto molto meglio di alcune zone molto ricche del paese. Al contrario in America, come in tutti i posti in cui gli interessi delle multinazionali sono molto forti, i lavoratori essenziali sono stati sacrificati in nome del mantenimento dei profitti. In Texas, dove vivo, i principali focolai di infezione si sono verificati negli stabilimenti di confezionamento della carne o nelle prigioni, che rappresentano entrambi imprese molto redditizie.
Come sta cambiando la geografia della fame con il cambiamento climatico?
Partiamo dal presupposto che i cambiamenti climatici non giovano a nessuno. Detto questo, è vero che le filiere produttive basate sulle monocolture e su lunghe catene di trasporto dei prodotti da una parte all’altra del mondo hanno subito un impatto molto forte sia dal cambiamento climatico, come anche dal Covid. Nelle aziende agricole più piccole, più sostenibili, con culture più diversificate, uno choc climatico può magari danneggiare una coltura, ma lasciarne intatta un’altra. Esistono nuovi tipi di sistemi e di tecnologie agricole che vanno nella direzione della diversificazione e la distribuzione del rischio, che tutelano il suolo, di cui l’agricoltura neo-liberista moderna ha fatto di tutto per liberarsi, perché li considera inefficienti.
Come si aspetta che evolverà l’agricoltura nel prossimo futuro? La crisi può essere uno stimolo per produrre cambiamenti radicali?
Sicuramente abbiamo bisogno di un’agricoltura del XXI secolo diversa da quella sviluppata nel XX, che è quella che ancora utilizziamo. Dall’altro lato, non credo che ci sia niente di positivo nel milione e più di persone morte finora per Covid. Certo, potremmo sfruttare quello che abbiamo vissuto per ribadire la necessità di un cambiamento radicale. Per affermare che la cura, e non il consumo, deve essere al centro della vita. Ma non ripeterò il ritornello per cui da questa orribile situazione deve per forza emergere qualcosa di positivo. La storia non funziona così, e a volte da situazioni terribili scaturiscono cose ancora peggiori.
tratto da: Il fatto quotidiano - 17 10 2020 - di Riccardo Antoniucci