Ragazzi in gamba a Vicenza

tratto da:
https://munchies.vice.com/it/article/zmk3k8/vini-naturali-colli-vicentini


Come questi giovani vignaioli stanno cambiando le cose sui colli vicentini 

Rilanciare un territorio con biodinamica e svecchiando il linguaggio del vino. Sta succedendo con la new wave di vignaioli naturali che sta ricostruendo l'identità dei colli vicentini.


Colline di Breganze, Veneto. Dopo due ore di cammino per le vigne, ho sete di acqua, la pelle mi brucia e sto arrancando dietro al produttore che mi ha trascinato in questo tour de force. Lui invece non dà segni di stanchezza, è magro e spigoloso, ciuffo asimmetrico, cammina a grandi passi e intanto racconta, con la voce roca da sigaretta e le parole giuste, se non ipnotiche, di uno appassionato a quello che fa.  Si chiama Davide Andreatta, ma tutti lo conoscono come Il Ceo, che poi è anche il nome della sua azienda. L’ho incontrato qualche mese fa a una fiera dove i suoi vini e la sua faccia mi hanno convinto a fare un giro da queste parti.
Dobbiamo recuperare quello che la generazione prima di noi ha dimenticato. L’ondata di benessere in Veneto è andata di pari passo con una viticultura che non teneva conto del suolo e della salute delle persone.
Siamo a Breganze, dicevo, e quando l’ho cercata sulla mappa ho pensato che fosse perfetta. L'insieme di colline che gira intorno a Vicenza, da Breganze (a nord) ai Colli Berici (a sud) passando per i Lessini è popolata da cantine che stavo iniziando a conoscere e apprezzare, per poi scoprire che sono tutte in qualche modo collegate tra loro: Il Ceo, Tenuta l’ArmoniaIl MoralizzatoreMaterviYeasteria
Aziende con alcuni tratti in comune: vignaioli under 40, di prima generazione, fissati col rilancio di un territorio che vive nell’ombra dei potenti vini veneti (Prosecco, Amarone…) e fissati che questo rilancio passi attraverso un ripensamento radicale dei metodi agricoli che hanno dominato gli ultimi venti, trent’anni. Tutti producono vino naturale, tutti stanno fuori dalle Doc. Per conoscerli mi sono messa in viaggio e sono finita in questa scarpinata per le vigne del Ceo.

La prima annata del Ceo è stata il 2014 e oggi coltiva 3 ettari sparsi in piccole parcelle nei dintorni di Breganze, ad altezze comprese tra i 150 e i 350 metri. “Vedi – mi fa – lì c’è l’Altopiano di Asiago che porta aria di montagna e sbalzo termico. Il terreno poi è prevalentemente vulcanico, ricco di basalto, ferro, silice. Buone premesse per il vino.”
Mi parla a lungo del suo lavoro per recuperare le uve autoctone della zona, in particolare vespaiola e groppella, e magari in futuro fare vino solo con quelle: “sono uve ormai rare, soppiantate negli anni dai vitigni internazionali (pinot grigio, cabernet, chardonnay…) per andare dietro al gusto del mercato. Che è assurdo perché le varietà locali si sono adattate a questi luoghi nel tempo e si prestano meglio a una viticultura senza concimi e pesticidi.” Per adesso con la vespaiola fa un fermo macerato e un rifermentato in bottiglia, il Vespri. Con la groppella uscirà a breve la prima etichetta e sta anche preparando il terreno per piantare una vigna dedicata. E poi fa un rosso di merlot, il Merloq. Tutti i suoi vini sono senza solforosa. 

Un modello di imprenditoria agricola esterna alle doc, ai consorzi, che parte dalla fertilità del suolo per ripensare il territorio da capo..
Prima di aprire la sua azienda il Ceo ha lavorato qualche anno dal Moralizzatore. Un’altra azienda giovane, fondata nel 2012 da Andrea Dalla Grana e Enrico Frisone, farmacista e veterinario, che proprio sulla loro preparazione chimico-fisica hanno fatto leva per impostare sin da subito un metodo poco invasivo, lo stesso che ha imparato il Ceo lavorando da loro: “usiamo i preparati biodinamici, ma anche propoli, olio essenziale di arancio e batteri selettivi per contrastare le muffe. E poi rame e zolfo, cercando di ridurli sempre di più.” 

Foto di Lorenzo Rui per gentile concessione del Moralizzatore.
Andrea mi parla dell’importanza delle basse rese (40 quintali a ettaro, contro i 120 massimi previsti dalle Doc) e di assecondare il vino nella sua spontanea evoluzione: “noi ci siamo sfilati dalla Doc perché ci chiedeva di rispettare dei parametri non compatibili col vino naturaleAd esempio il colore: dipende dall’annata, io non posso deciderlo a priori e non ho intenzione di correggerlo nella fase di vinificazione.”
Il nome e gli inizi dell’azienda sono legati ad Angiolino Maule, punto di riferimento per tutti i produttori che sto incontrando, che ha adottato metodi naturali sin dagli anni Novanta, a Gambellara. “È stato lui a spronarci, a dirci ‘fate il vostro vino’ e a prestarci un attrezzo per la potatura che noi abbiamo ribattezzato il moralizzatore. Che poi è diventato il nome dell’azienda.”
Fanno 12mila bottiglie e anche loro in prospettiva vogliono concentrarsi sulle uve autoctone: piantare groppella ed esplorare la versatilità della vespaiola: ferma, rifermentata o in appassimento, come è nella tradizione locale del Torcolato. 
Andrea insiste sull’aspetto agricolo: “Dobbiamo recuperare quello che la generazione prima di noi ha dimenticato. L’ondata di benessere in Veneto è andata di pari passo con una viticultura che non teneva conto del suolo e della salute delle persone. Piano piano stiamo lavorando per riportare equilibrio e fertilità nel suolo, ci vuole tempo, anni, ma vale la pena.” 
La pena sarebbe l’investimento, ‘ i schei, come dicono da queste parti, perché lavorare così vuol dire spendere il doppio, il triplo, per trattamenti e manodopera, e spiega in gran parte perché un vino naturale costa più di un vino convenzionale.
Questa lenta rivalsa del territorio torna anche nelle parole di Davide Xodo, un enologo vicentino che mi aiuta a dare un po’ di prospettiva: “il declino vinicolo di questa zona inizia negli anni Ottanta, quando i produttori si mettono a inseguire la moda di vini fatti altrove: Toscana, Piemonte, Francia. A inseguire quelle strutture, quelle potenze, dimenticandosi che l’identità e la forza dei vini locali stava nel contrario, cioè freschezza, mineralità. Nel frattempo le tecniche tradizionali venivano sostituite da metodi industriali, orientati alla quantità. In questo le cantine sociali hanno avuto e continuano ad avere un ruolo: i produttori sottoscrivono contratti a vita e si vincolano a consegne retribuite a peso, dove quel che conta è solo spremere piante e terreno. In questo modo si sono persi i vigneti migliori, i nostri cru.”
“Negli ultimi dieci anni – prosegue – c’è stata una specie di rimbalzo, grazie al movimento dei vini naturali e a produttori come Angiolino Maule che hanno dato l’esempio. Per fortuna sono nate tante giovani cantine che stanno lavorando per recuperare l’identità del territorio. Però è ancora difficile trovare terreni, perché i vecchi produttori non li mollano e continuano a preferire metodi industriali e cantine sociali.”
La lotta per sfilare la terra alle logiche industriali è l’argomento preferito di Andrea Pendin, produttore di Tenuta l’Armonia. È una delle prime cose che mi dice: “abbiamo appena firmato un affitto per 10 ettari in zona Breganze, un grosso investimento di cui vedremo i frutti fra anni, perché ci vogliono anni prima che la terra recuperi equilibrio e salute, ma intanto sono 10 ettari in meno trattati con la chimica.”

Andrea Pendin.
Per incontrare Pendin mi spingo più a sud: l’azienda è a Montecchio Maggiore ma i vigneti sono sparsi fino ai colli Berici. Andrea prima ancora che vignaiolo si definisce un “promotore di territorio” e da come parla capisco che (1) è sinceramente incazzato per la sorte vinicola delle colline vicentine e (2) non ha paura di stare sulle palle alla gente.
Tenuta l’Armonia nasce nel 2008 come azienda agricola di olio e cereali, poi è arrivato il vino. Oggi fa sei etichette, tre “cru”, uve classiche della zona vinificate in purezza (cioè 100% della stessa uva), e tre “pop”: uvaggi misti, vini più beverini. Camminiamo in mezzo ad alcune delle sue duecento galline che scorrazzano libere, alcune, come la padovana, osano pettinature anni Ottanta. Intanto lui racconta: 

A me interessa dimostrare in pochi anni il valore di questa zona, l’identità che ha dimenticato per rincorrere i vini di Verona e Treviso. Ancora oggi il potere di mercato ce l’hanno loro e stanno ancora distruggendo il nostro territorio, coi vecchi vigneti di garganega e durella reinnestati a pinot grigio e glera, per fare tutti lo stesso vino, fa paura eh.”
Come gli altri, anche lui lavora in vigna con i preparati biodinamici, con le basse rese, col lento faticoso recupero delle varietà locali, come la durella appunto, della quale è particolarmente fan. Ma c’è dell’altro, ed è la cosa che rende Tenuta l’Armonia diversa da ogni altra azienda che abbia visitato: da alcuni anni ormai funziona come una specie di “incubatore” per altri produttori naturali che non hanno i mezzi da investire per farsi una cantina o pagarsi un consulente.
“Io gli offro spazi e consulenza – dice Andrea – loro fanno i loro vini, che non devono somigliare ai miei. Non gli chiedo soldi, stimiamo le spese per l’azienda e me le ricambiano in ore di lavoro. Nel frattempo ci confrontiamo, facciamo rete, facciamo dei vini insieme, sperimentiamo.”
“E tu che ci guadagni?” chiedo. “Economicamente nulla. Però intanto sono produttori nuovi che non vanno a imparare il vino dalle cantine convenzionali. Ci guadagna il territorio, quindi anche io."

Alberto Rigon e Andrea Pendin.
MaterVi e Yeasteria sono due di queste aziende. Alberto Rigon (MaterVi) ha 27 anni ma fa il vino da che ne aveva 16, nella cantina di casa, sbagliando tutto, dice lui, ma avere dieci anni di errori alle spalle lo fa essere molto lucido su quello che vuole e che può fare. I suoi vigneti sono a Breganze, circa due ettari da cui fa il Tainot (tocai, pinot bianco, vespaiola) e il Vesplicito (vespaiola macerata). “Oggi faccio 5000 bottiglie e anche vendendole tutte è difficile stare in piedi, se avessi dovuto investire in una cantina mia, non avrei neanche iniziato”. 
Yeasteria è il progetto più estremo della rete Armonia, così me lo racconta il suo fondatore, Jacopo Nardi, che insieme a Esmeralda Spitalieri ha creato l’azienda un paio di anni fa: “i vini vengono da piante anziane, poco produttive; hanno bassissime percentuali di solforosa, che col tempo vorrei portare a zero. E sono il risultato della nostra creatività a briglia sciolta: quella di Andrea insieme alla mia (Jacopo è enologo) e di Esmeralda (che arriva dal mondo della birra e della panificazione)”. Creatività che si riflette anche nei nomi (Barracuda e Pinky Punk) e nelle etichette, ispirate al Medioevo Giapponese. 

I Vini di Fare Cibo.
Oggi Tenuta l’Armonia, comprese le aziende “incubate”, copre 24 ettari e produce 120 mila bottiglie. Anche se, mi dice Andrea, in zona parlano ancora di loro come: “quei xè matti, xè biologici”. Oltre a questo Pendin ha aperto anche un ristorante (insieme al socio Alessandro Schiavo), si chiama Fare Cibo ed è specializzato in lievitati. Del resto il pane è stata la sua prima passione, prima ancora del vino, grazie all’incontro e agli insegnamenti di uno mica a caso: Eugenio Pol.

la pizza di Fare Cibo.
Tra tutti i produttori che ho citato (ma in questa zona ce ne sono altrettanto
interessanti che non ho citato: MentiVolcanaliaInsolenteDavide Spillare,
Siemàn…) circolano idee, consigli, condivisione di strumenti e tecniche: una logica di rete, di mutualismo tra aziende “aperte”.
Un modello di imprenditoria agricola esterna alle doc, ai consorzi, che parte dalla fertilità del suolo per ripensare il territorio da capo.

Interessante video su Youtube

per vedere il video digita su:

https://www.bing.com/videos/search?q=etica+sgr+overshoot+day&view=detail&mid=9A9139C88087E6FB02C59A9139C88087E6FB02C5&FORM=VRRTAP

Il denaro non dorme e il tempo per piangere è poco

di Matteo Saudino*
La drammatica vicenda dell’uomo Sergio Marchionne offre, a mio avviso, alcuni interessanti spunti di riflessione.
1. Il capitalismo si conferma cinico e spietato nella sua essenza e struttura più intima. Di fronte alla malattia e allo aggravarsi della salute dell’amministratore delegato in carica, i vertici Fca hanno riunito di sabato un consiglio di amministrazione straordinario per nominare tempestivamente i nuovi manager del gruppo, in modo da rassicurare i mercati e le borse internazionali lunedì mattina, giorno di riapertura degli affari.
Il profitto e il denaro non possono fermarsi di fronte a nulla, dolore e morte compresi. Anche Marchionne ne sarebbe fiero, il denaro non dorme e il tempo per piangere è poco, bisogna immediatamente girare pagina e proiettarsi verso nuove sfide.
2. La morte rende tutti più belli, buoni e intelligenti, dagli sportivi agli artisti, dagli imprenditori ai politici. I difetti svaniscono e i pregi risplendono. Solo i poveracci, i marginali, gli operai, i lavoratori, gli zingari e i migranti rimangono brutti, sporchi e cattivi sempre e comunque.
di Matteo Saudino*
La drammatica vicenda dell’uomo Sergio Marchionne offre, a mio avviso, alcuni interessanti spunti di riflessione.
1. Il capitalismo si conferma cinico e spietato nella sua essenza e struttura più intima. Di fronte alla malattia e allo aggravarsi della salute dell’amministratore delegato in carica, i vertici Fca hanno riunito di sabato un consiglio di amministrazione straordinario per nominare tempestivamente i nuovi manager del gruppo, in modo da rassicurare i mercati e le borse internazionali lunedì mattina, giorno di riapertura degli affari.
Il profitto e il denaro non possono fermarsi di fronte a nulla, dolore e morte compresi. Anche Marchionne ne sarebbe fiero, il denaro non dorme e il tempo per piangere è poco, bisogna immediatamente girare pagina e proiettarsi verso nuove sfide.
2. La morte rende tutti più belli, buoni e intelligenti, dagli sportivi agli artisti, dagli imprenditori ai politici. I difetti svaniscono e i pregi risplendono. Solo i poveracci, i marginali, gli operai, i lavoratori, gli zingari e i migranti rimangono brutti, sporchi e cattivi sempre e comunque. Fedeli a tale post-verità, quasi tutti i mezzi di informazione, i giornalisti e gli opinionisti di grido hanno iniziato a tessere gli elogi senza se e senza ma di Sergio Marchionne, vero e proprio eroe dei due mondi dell’economia e dell’ingegno italico. L’apologia e l’agiografia sono le due modalità di lettura più in voga della figura e dello operato pubblico dell’uomo con il pullover. Nelle post democrazie il giornalismo main stream è sempre più un menestrello di corte, un servo che dona servigi senza quasi che il Signore glieli debba chiedere. E ciò non è dovuto solo ai rapporti di proprietà dei mezzi di informazione (tutti in mano al grande capitale), ma anche alla prevalenza del mediocre Don Abbondio che vi è oggi nell’intellettualità nostrana.

AGOSTO, TRA STELLE CADENTI E LUNA PIENA , le belle iniziative di Alkemica a Mantova




















per la rassegna "In silenzio sul lago" 
UN LAGO DI STELLE
mercoledì 1 e giovedì 2 agosto 2018 h. 21.30 
Escursioni serali in battello elettrico nella Riserva Naturale Valli del Mincio
per l'osservazione guidata del cielo stellato


Ritrovo, partenza e arrivo: pontile di attracco c/o ristorante “Il Rifugio”,
Giardini di Belfiore (Lago Superiore, MN), accesso da viale Mons. Martini
(durata: h. 1,30 circa).
Costo: € 10,00 adulti; € 5,00   3-10 anni.
In caso di maltempo l’escursione potrebbe essere annullata:
si consiglia di telefonare per conferma.
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA



per la rassegna Coelestia
venerdì 10 agosto 2018, h. 21.00
STARDUST: A CACCIA DI STELLE CADENTI

Una serata dedicata al cielo, presso la Polisportiva S. Lazzaro di Mantova,
dove una guida illustrerà stelle e costellazioni, in attesa delle stelle cadenti
 
Costo: EVENTO GRATUITO PER I SOCI, INGRESSO € 5 PER I NON SOCI
IN COLLABORAZIONE CON
Comune di Mantova
Polisportiva S. Lazzaro




per la rassegna "In silenzio sul lago" 
DAL TRAMONTO A LUNARIA
venerdì 24 agosto 2018 h. 20.30

sabato  25 agosto 2018 h. 20.30
Escursioni serali in battello elettrico nella Riserva Naturale Valli del Mincio
nelle notti di Luna piena


Ritrovo, partenza e arrivo: pontile di attracco c/o ristorante “Il Rifugio”,
Giardini di Belfiore (Lago Superiore, MN), accesso da viale Mons. Martini
(durata: h. 1,30 circa).
Costo: € 10,00 adulti; € 5,00   3-10 anni.
In caso di maltempo l’escursione potrebbe essere annullata:
si consiglia di telefonare per conferma.
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA


 
Restiamo a disposizione per ulteriori informazioni.
Cordialmente,
lo staff


Per info e prenotazioni: 0376-225724 oppure 333-5669382; si prega di segnalare sempre un recapito telefonico per pronto contatto

Sono di Carrefour gli otto supermercati So.bio


Carrefour si espande nel mondo del biologico, dove è già attivo, fra l’altro, con un’ampia offerta di marche private e di marchi dei produttori e con una ventina di punti vendita sotto insegna Carrefour Bio. Il colosso francese ha reso noto lo scorso 18 luglio di avere rilevato So.bio, insegna di supermercati specializzati che possiede otto indirizzi nel sud-ovest della Francia. L'intenzione dell'acquirente è di aprire, a breve, altri due punti vendita, per poi espandere il marchio su scala nazionale, mantenendone intatto il brand e la relativa offerta.

Carrefour, inoltre, si avvarrà della nuova società controllata per potenziare la propria offerta bio lungo tutta la catena di distribuzione, con lo sviluppo di corner So.bio all’interno della propria rete, e, online, tramite Greenweez.com, uno dei più importanti siti specializzati con un assortimento di 20 mila referenze, 800mila clienti, 100mila fan Facebook e più di 2 milioni di ordini, di cui 400mila consegnati nel 2017.

Secondo una nota ufficiale il grande merito di So.bio è di aver saputo creare legami molto forti con i produttori locali e regionali, mantenendo sempre un equilibrio ottimale fra qualità e prezzo. Attualmente, in Francia, il giro d'affari sviluppato da Carrefour sui prodotti bio è di 1 miliardo di euro, ma l'obiettivo fissato per il 2022, è di arrivare a 5 miliardi.  


tratto da:
http://www.greenplanet.net/sono-di-carrefour-gli-otto-supermercati-sobio

Commento sull'articolo di Elena Cattaneo

Sabato 21 luglio dalle pagine di La Repubblica D, ritroviamo la professoressa e senatrice a vita Elena Cattaneo intenta a denunciare le malefatte del biologico, un’attività nella quale sembra impegnarsi assiduamente. Secondo Cattaneo gli agricoltori bio sono dei furbastri che fanno bio solo per intascarsi i sussidi, il bio è pieno di pesticidi e contamina di rame il terreno, i prodotti bio non sono diversi dagli altri, il bio fa aumentare la domanda di terra e ci ridurrà alla fame, il bio significa tornare al medioevo, alle mondine. 
Cattaneo ci sprona a liberarci di questo fardello, retaggio di una concezione antiquata e inefficiente dell’agricoltura, e di andare avanti verso il cammino tracciato dalla scienza, cioè dalle biotecnologie, cioè dagli ogm, sui quali lavorano, e sperano di lavorare coi cospicui finanziamenti delle multinazionali dell’agrochimica, i colleghi per i quali fa da portavoce (dato che dubito che Cattaneo si interessi o conosca qualcosa del settore agroalimentare, quello che scrive ne è la prova). 
È da tempo che mi chiedo perché questo astio e disprezzo nei confronti degli agricoltori biologici. Ma che avranno fatto di male per meritarsi le invettive della professoressa Cattaneo? Perché Cattaneo non si accanisce anche contro le produzioni vitivinicole? In fondo i vigneti tolgono spazio alle colture alimentari, dato che il vino non si produce certo per sfamare la gente. Vi sono circa tre milioni di ettari di vigneto in Europa, 610.000 ettari in Italia; le superfici certificate biologico o in conversione sono circa dodici milioni di ettari in Europa, più di un milione di ettari in Italia. 
Anche i produttori vitivinicoli attingono ai sussidi nell’ambito dei finanziamenti Pac (la politica agricola comune), i vigneti (con i frutteti) sono le colture a più alto impatto ambientale per l’alto uso di erbicidi, pesticidi e rame (ebbene sì, il rame si usa anche nell’agricoltura convenzionale), e per la distruzione del paesaggio che l’espansione della viticoltura intensiva sta attuando (vedasi area del prosecco).


La senatrice Elena Cattaneo

Perché non si schiera contro l’allevamento di bovini, un settore altrettanto sussidiato, e in assoluto l’attività agricola a più alto impatto ambientale per l’appropriazione di suolo, consumi idrici ed emissioni di gas a effetto serra. È stato stimato che per produrre un chilo di carne di manzo si consumano ventisette volte più terra e undici volte più acqua che per produrre un chilo di carne di maiale o pollo. La produzione di carne produce il dieci per cento di tutte le emissioni di gas serra. È stato stimato che se le colture destinate agli animali allevati fossero usate per l’alimentazione umana si potrebbero nutrire quattro miliardi di persone. 
Perché non denuncia lo spreco di denari pubblici (un miliardo di euro all’anno per l’Italia, e bolletta più cara per tutti) e di risorse agricole che vanno letteralmente bruciate per produrre agro-energia, un vettore energetico totalmente inefficiente per la nostra società, che concorre, tra l’altro, ad aumentare l’inquinamento dell’aria e dell’ambiente in generale. 
Ovviamente i problemi sono più complessi di come descritti nelle righe precedenti, e dalla senatrice Cattaneo, non si può banalizzare, come tendono a fare invece i biotech. Sviluppare un’agricoltura più sostenibile richiedere un cambio a livello di organizzazione del sistema agroalimentare, di società e di cultura alimentare e non solo.    
Ma Cattaneo ci dice che il problema è il biologico. Sono i produttori biologici il male del mondo (anche se quasi insignificanti in termini di numero, di superfici e pil, non me ne voglia il mondo del bio, lo dico solo per far presente che le colpe dei mali mondo non possono tecnicamente ricadere su di voi: anche volendo non potreste causare tutti questi danni). Il resto non esiste.
Il biologico non è ovviamente il male del mondo, ma certamente è un male per il mercato biotech. Un cattivo esempio, la cui esistenza fa pensare ai consumatori che si può fare agricoltura anche senza ogm, e addirittura senza agrochimica (certo costa un po’ di più, ma si può fare). In contraddizione con la strategia di marketing usata per promuovere gli ogm, il nostro unico futuro e salvezza.    
Senza il biologico sarebbe certamente tutto più facile, non ci sarebbero alternative a cui guardare. Per cui si cerca di screditare il bio agli occhi dei consumatori, e in maniera più subdola di infiltrarlo per deviarlo verso fini precostituiti. 
Per esempio, sia gli Usa sia l’Europa hanno recentemente dato il loro ok per la certificazione bio delle produzioni idroponiche (produzione senza terra, dove i nutrienti vengono forniti in soluzione con l’irrigazione). Questo gioca evidentemente a favore della grande industria e della grande distribuzione, ma contraddice la natura del biologico, che nasce dall’idea di una migliore gestione del suolo. 
Un’agricoltura senza suolo forse è una cosa diversa. Ovviamente bene che si riconosca chi non usa prodotti tossici in serra, ma magari si poteva evitare di interferire con le certificazioni esistenti. 
Negli USA, la Nature’s Path, un’importante azienda bio e associazioni di produttori del biologico, hanno denunciato collaborazioni dell’Organizzazione del commercio bio del Nord America (la Organic Trade Association, Ota), con multinazionali dell’agroalimentare, che attraverso marchi bio prestanome cercano di pilotare il movimento biologico nordamericano. Tra le accuse mosse alla Ota c’è anche quella di aver collaborato, nel 2016, con la Monsanto, aiutandola nell’intento di evitare l’etichettatura dei prodotti Gm, e di essere la vera responsabile del fallimento della proposta. Alcuni giorni fa la Ota è stata oggetto di aspre critiche per aver accettato tra i suoi soci il gigante dell’agrochimica Basf (produttrice anche di ogm), e una delle maggiori multinazionali dell’agroalimentare, la Cargill.


Mais geneticamente modificato

Che dire delle solite accuse della professoressa Cattaneo? Certamente si può e si deve fare meglio per evitare che i profittatori speculino sui denari pubblici. Cattaneo si attivi per inasprire le pene per chi truffa, e per chi mette a rischio la salute pubblica, bio o convenzionale che sia. 
Certamente il biologico non è la via per l’autosufficienza alimentare, come non lo sono d’altronde gli ogm. L’Italia ha una densità di popolazione per terra agricola arabile tra le più alte del mondo, poco più di 0,1ha (1.000 mq) per capita, circa come il Bangladesh. Per confronto gli USA sono a 0,5ha per capita, l’Ucraina a 0,7ha pe capita, Argentina 0,9ha per capita, Canada 1,2 ha per capita. 
Ovviamente l’Italia non può competere con questi paesi per la produzione di colture estensive, ma deve innanzitutto mirare a preservare la scarsissima risorsa suolo (in molte aree del paese a rischio desertificazione), la qualità delle risorse idriche e dell’aria (cioè fare prevenzione e ridurre i costi della sanità). Poi sarebbe più ragionevole puntare sul fattore qualità e su prodotti ad alto valore aggiunto, non certo sprecare le nostre scarse risorse (anche economiche) per la produzione intensiva di mais da mandare al macero nelle centrali agroenergetiche.                
Il biologico attinge ai sussidi previsti per l’agricoltura in generale. Oltre a questi, il presente regolamento Pac indica che almeno il trenta per cento dei finanziamenti per lo sviluppo rurale devono essere allocati al supporto dell’agricoltura biologica o progetti di sviluppo agricolo miranti al ridurre l’impatto ambientale delle attività agricole. Quindi un trenta per cento che non è appannaggio solo del biologico, ma finanziamenti per i quali possono concorrere tutti gli agricoltori che presentino progetti che rispondano alle direttive del programma. 
I prodotti bio, oltre che a non avere residui di pesticidi di sintesi, hanno in genere anche delle migliori qualità. Questo emerge, per esempio, dai risultati di un progetto europeo pubblicati nel 2014 (Quality Low Input Food EU FP6 Contract CT-2003-506358). Non facendo uso dei pesticidi di sintesi, si evita che tali prodotti per esempio finiscano nell’acqua e nell’aria (oramai la nostra acqua, come il nostro corpo, è contaminata da centinaia di prodotti chimici che bene non fanno da soli, e men che meno insieme).
Oltre al rame, anche alcuni dei pesticidi di sintesi rimangono nell’ambiente per decenni. Composti che sono molto tossici per gli organismi viventi e per l’uomo (mentre quelli usati nel biologico si degradano in pochi giorni). Il rame può essere tamponato dalla sostanza organica del suolo, e si possono sviluppare irroratori a recupero, in particolare per il settore vitivinicolo (credo che se si investisse nel settore credo si riuscirebbe a limitare di molto la dispersione del rame in ambiante, come anche dei pesticidi di sintesi)
L’allevamento biologico aiuta a ridurre l’uso degli antibiotici, un problema serissimo, che mettere a rischio le nostre vite ogni volta che siamo affetti da un’infezione. La meccanizzazione e la tecnologia (e i risultati della ricerca scientifica) sono ampiamente adottate anche nell’agricoltura biologica, non vi è alcun ritorno alle mondine! Mentre pare invece sia il convenzionale a fare largo uso di manodopera gestita in stato di semi schiavitù. 
Cattaneo ci informa che “per produrre e nutrirci riducendo l’uso di agrofarmaci possiamo ricorrere alle biotecnologie agrarie”. E come pensa che colture resistenti agli erbicidi (la maggior parte delle colture gm coltivare oggi), che accumulano tali erbicidi nelle colture che poi finiscono nelle nostre tavole (oltre che nell’acqua che beviamo) possa nutrirci senza uso di agrofarmaci. 
Forse il trucco della Cattaneo sta nel non considerare gli erbicidi agrofarmaci. Uno studio pubblicato recentemente dimostra che erbicidi a base di glifosato (quelli che si usano anche nelle colture gm, e che rimangono quindi negli alimenti che mangiamo), in test condotti in ratti di laboratorio, compromettono il sistema riproduttivo e la salute dei nuovi nati. Gli effetti di tali erbicidi si sono riscontrati nelle madri esposte al prodotto e anche nelle figlie, anche se queste non sono state esposte al prodotto. Questi erbicidi sono in grado di modificare il DNA nella generazione parentale (la madre), modificazione che quindi si trasmette alle generazioni successive. Tecnicamente un effetto mutageno intergenerazionale, già conosciuto da un decennio per altri pesticidi che si usano nel convenzionale, giustamente vietati nel biologico, che però, ci dice Cattaneo, non sarebbe differente dal convenzionale.   
Cattaneo dovrebbe riuscire a capire che quello che dice non ha senso. Si batta per bandire le colture gm resistesti agli erbicidi per iniziare. Sarebbe un segnale di buona fede. Altrimenti non possiamo che ritenere le sue invettive verso il bio propaganda per la promozione di interessi di parte. Un comportamento che svilisce il suo ruolo di scienziata (di un’istituzione pubblica), nonché di figura istituzionale che dovrebbe essere super partes (e dalla parte dei cittadini). 


da: Tiziano Gomiero, Ytali