Il futuro della biodiversità agricola

Le minacce alla biodiversità agricola si fanno sempre più intense. Pur essendo meno note, non sono meno gravi e preoccupanti di quelle ambientali. Le determina soprattutto il totale asservimento dei governi e delle istituzioni internazionali ai mercati dell’agrobusiness e ai modelli intensivi. Si vengono a creare così agroecosistemi semplificati e pesantemente contaminati con biocidi e altri prodotti agrochimici. Nei giorni scorsi si è conclusa la prima parte del vertice internazionale della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), la cosiddetta COP15. Le Nazioni Unite, tramite la Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), si erano proposte nel 2010 in Giappone di porre fine entro il 2020 alla perdita di biodiversità nel mondo. Dieci anni dopo, nessuno dei target che la comunità internazionale si era prefissata è stato raggiunto 

Foto Riccardo Troisi 

Si è conclusa nei giorni scorsi la prima parte del vertice internazionale della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), la cosiddetta COP15. L’appuntamento, che ha visto il confronto tra 195 paesi, è fondamentale per condividere un sistema di regole e obiettivi che permetta di arrestare la perdita drammatica di biodiversità nel mondo.

Sebbene meno conosciuta della COP sul clima, la COP sulla biodiversità ha un’importanza almeno identica. Oggi infatti tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati significativamente modificati dalle azioni umane, fatto che ha determinato un crollo del numero di specie animali e vegetali, così come un crollo della biodiversità coltivata.

Per porre rimedio a questa situazione, si stima che ogni anno saranno necessari più di 700 miliardi di dollari. Ma il punto è: dove andranno questi fondi? La preoccupazione dei movimenti sociali e di alcune ONG come Crocevia, è che verranno destinati a false soluzioni, aumentando la privatizzazione delle aree naturali ancora integre, cacciando le popolazioni indigene e le comunità locali dai luoghi che hanno accudito per decenni, utilizzando i “servizi ecosistemici” per farne moneta di scambio su mercati del carbonio dedicati.

Ciò che davvero sarebbe necessario, invece, è una inversione a U dal modello dell’agricoltura industriale, primo fattore di distruzione dell’ambiente e di riduzione della biodiversità. Ecco perché Crocevia segue e partecipa ai negoziati della Convenzione sulla Biodiversità in supporto alle reti e ai movimenti di piccoli produttori e Popoli Indigeni. 

Vogliamo che il prossimo pacchetto di regole che i governi riuniti nella CBD concorderanno comprenda il riconoscimento dell’agroecologia contadina e del modo di vita indigeno come pratiche capaci di invertire la perdita di biodiversità, garantirne la vera conservazione dinamica e l’evoluzione.

L’importanza della biodiversità agricola

La biodiversità agricola sta scomparendo rapidamente, a causa del supporto incondizionato da parte della governance globale all’agricoltura intensiva: l’agricoltura e l’acquacoltura ormai ridotte a industrie appiattiscono la biodiversità agricola, creando un mondo di sementi, alberi, razze e specie acquatiche omogenei e spesso modificati geneticamente per includere tratti limitati, che sono utili al mercato ma non all’equilibrio degli ecosistemi. Si vengono a creare così agroecosistemi semplificati e pesantemente contaminati con biocidi e altri prodotti agrochimici.

Mentre la pandemia di COVID continua, dobbiamo ricordarci che i rischi di zoonosi sono sempre maggiori in ambienti con poca biodiversità e con presenza massiccia di allevamenti intensivi. L’espansione dell’agricoltura industriale in aree remote crea lo spazio perché patogeni rari possano accedere a ospiti vulnerabili, dando origine a nuovi e più virulenti ceppi di influenza e coronavirus come il COVID-19.

Dall’ascesa dell’agricoltura industriale, avvenuta con la rivoluzione verde, la biodiversità è stata considerata incompatibile con l’agricoltura. Purtroppo, la direzione non sembra cambiare. 

Le Nazioni Unite, tramite la Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), si sono poste nel 2010 ad Aichi, in Giappone, obiettivi sfidanti per porre fine entro il 2020 alla perdita di biodiversità nel mondo. Tuttavia, un decennio dopo, nessuno dei target che la comunità internazionale si era prefissata è stato raggiunto. Intanto continua da ormai 3 anni la discussione sul prossimo quadro di regole e obiettivi da darsi di qui al 2030. 

I negoziati, in grave ritardo anche per causa della pandemia, dovrebbero portare ad approvare un nuovo piano ambizioso per la conservazione della biodiversità.

Un approccio sbagliato

Ma rimangono forti dubbi che questo nuovo tentativo riuscirà a raggiungere lo scopo: l’attuale lavoro verso il cosiddetto Global Biodiversity Framework post-2020, infatti, ha un approccio produttivista nella sua limitata attenzione all’agroecologia, e un approccio coloniale alla conservazione, proponendo di preservare più terra possibile dall’uso umano sostenibile, e violando così il diritto alla terra dei Popoli Indigeni, oltre a negare migliaia di anni di cura e co-produzione con la Natura.....

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