Il sogno di un’Europa «green» e biodiversa

Il fatto della settimana. Un documento della Commissione europea propone di investire nelle aree
naturali per superare la crisi causata dal coronavirus
Promette di «riportare la natura nelle nostre vite» il documento della Commissione Europea
Strategia per la biodiversità e considera la protezione e il recupero delle aree naturali un
investimento fondamentale per la ripresa economica post-Covid. Con la riforma del sistema
agro-alimentare (Farm-to-Fork, F2F, dal campo alla tavola), costituisce uno dei pilastri del Green
Deal, il patto verde per l’Europa della presidente Ursula von der Leyen. I due documenti, presentati
la settimana scorsa, costituiscono una road map per invertire la perdita della diversità biologica (in
40 si sono estinte il 60% delle specie selvatiche) e mettere al sicuro entro il 2050 gli ecosistemi non
solo europei, ma persino quelli globali, e con questi anche il clima.
Una dichiarazione di intenti – e un’implicita ammissione dell’insostenibilità del sistema attuale che
andrà sostanziata nei prossimi anni con la revisione di direttive, piani e altre strategie coerenti tra
loro che dovranno ottenere maggioranze nel Parlamento Europeo, nel Consiglio dell’Unione, e fondi
adeguati.
LA STRATEGIA PER LA BIODIVERSITÀ intende non solo proteggere ma soprattutto recuperare i
danni inferti agli ecosistemi. Quanto e in che misura lo sapremo il prossimo anno quando saranno
definiti gli obiettivi vincolanti per il 2030: per ora ci si propone di piantare 3 miliardi di alberi nel
rispetto dei principi ecologici; di riportare 25 mila km di fiumi allo stato naturale; di creare aree
protette che coprano il 30% del territorio e il 30% dei mari e riservare una quota del 10% di queste
alla protezione integrale, dove le attività umane non siano consentite; riservare il 10% delle aree
agricole ad elementi naturali del paesaggio (siepi, terrazzamenti, filari, terreni a riposo o a rotazione,
stagni, ecc); arrivare a coltivare almeno il 25% dei terreni con gli standard del biologico (quindi
triplicando la superficie attuale in Europa che è l’8%); dimezzare la dispersione nell’ambiente di
azoto e fosforo contenuti nei fertilizzanti chimici e nel letame, principali responsabili
dell’eutrofizzazione delle acque, e ridurre il loro uso del 20%. Fino a qui, obiettivi senz’altro
necessari, condivisibili, più o meno ambiziosi.
IL NODO IRRISOLTO È QUELLO DEI PESTICIDI, di cui si propone la riduzione del 50% (del
rischio e delle quantità utilizzate), rimandando sine die l’obiettivo davvero ambizioso, lo
zero-pesticidi, quello che scommette sull’agro-ecologia come modello dominante, che invece nelle
carte della Commissione rimane un modello tra tanti possibili. «Il fatto che la Commissione Europea
riconosca la necessità di una riforma dell’agricoltura è già di per sé una rivoluzione – ha commentato
Martin Dermine, di PAN (Pesticide Action Network) – però il vero obiettivo dovrebbe essere
l’eliminazione dei pesticidi di sintesi nell’arco di 20 anni in Europa». Almeno di quei pesticidi,
funghicidi, erbicidi che contengono interferenti endocrini per cui la Endrocrine Society ha stabilito
che non esiste un livello sicuro di esposizione: per questi non è la dose a fare il veleno, vanno
eliminati.
Non siamo di fronte ad una svolta, ma almeno la Commissione dichiara di ambire a rendere gli
standard europei sui pesticidi standard globali, quindi sembra impegnarsi a non cedere sui limiti dei
residui nei prodotti di importazione (i controversi «import tolerances») negli accordi bilaterali come
il CETA, considerando che sono 82 i pesticidi approvati negli Usa e vietati in Europa, in Brasile ben
152 (dati CIEL, Centre for International Environmental Law). «È chiaro il proposito di non
ammettere residui di pesticidi messi al bando in UE nei prodotti importati – dice Nina Holland,
ricercatrice del Corporate Europe Observatory – questo mette il bastone tra le ruote alle
multinazionali che hanno premuto per l’attenuazione degli standard in Europa, minacciando di
ricorrere al WTO. I loro sforzi adesso sembrano falliti».
L’allerta però deve rimanere massima, poiché in uno dei documenti che accompagnano la Strategia
per la Biodiversità, il Refit on Pesticide Regulation (una periodica valutazione sull’adeguatezza della
regolamentazione), la Commissione Europea conclude che la procedura per autorizzazione dei
pesticidi funziona bene, «chiudendo gli occhi di fronte agli evidenti conflitti di interessi, l’uso
strumentale degli articoli scientifici, la mancanza di trasparenza», commenta Angeliki Lyssimachou
di PAN, tra gli autori di un articolo che si basa sul lavoro del gruppo interdisciplinare Citizens for
Science in Pesticides Regulations (ne fanno parte 140 ONG) che mette in evidenza le discrepanze e
le falle di una procedura di autorizzazione che è stata decentrata tra gli Stati membri, ciascuno dei
quali può essere una porta di accesso ad una determinata formulazione di prodotti fitosanitari dopo
che il principio attivo è passato al vaglio dell’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare.
ANCHE LA PAC DOVRÀ ESSERE ALLINEATA agli obiettivi della Strategia per la Biodiversità,
pena l’insuccesso di quest’ultima, dal momento che una parte sostanziale dei fondi dovrebbero
provenire dagli stanziamenti della PAC, la Politica Agricola Comune, che nel periodo 2021-2027
stanzierà 365 miliardi (quasi un terzo del bilancio UE pre-Covid). La proposta di riforma PAC
avanzata nel 2018 dalla Commissione Juncker prevede che ciascun Stato membro elabori un proprio
piano strategico nazionale per concorrere al raggiungimento dei 9 obiettivi fissati dalla riforma, tra i
quali figurano anche la tutela dell’ambiente, del clima, della biodiversità, oltre al sostegno diretto al
reddito degli agricoltori e ai piani di sviluppo rurale. Secondo l’European Environmental Bureau
(EEB), una federazione di associazioni ambientaliste con sede a Bruxelles «è deludente osservare
che la Commissione continua a nascondersi dietro la sua debole riforma della PAC. Invece di rendere
credibile il suo impegno a rafforzare la politica climatica, rimette la responsabilità nelle mani degli
Stati membri, mentre la promessa di supportare l’introduzione di un budget separato per regimi
ecologici specifici è poco più che simbolica». Inoltre, se non si creano parità di condizioni tra gli
Stati con una regia centrale, premiare le pratiche agricole virtuose per l’ambiente sarà pressoché
utopistico.
IL DOCUMENTO SULLE POLITICHE agro-alimentari (F2F) contiene alcuni aspetti inediti a
Bruxelles, come l’attenzione alla percezione dei cittadini sul valore del cibo; un impegno per
accorciare le filiere e a ridurre i trasporti a lungo raggio; misure per facilitare la registrazione dei
semi, anche per il bio e per assicurare un più semplice accesso ai mercati per le varietà tradizionali;
l’impegno a erogare pagamenti diretti «agli agricoltori che ne hanno bisogno e che forniscono servizi
ambientali, invece che a entità e società che hanno unicamente la proprietà della terra»; il
dimezzamento dell’uso degli antibiotici negli allevamenti. L’obiettivo è ridurre l’impatto ambientale
e climatico del sistema agroalimentare, anche se non viene quantificato, né si fa «un’esatta diagnosi
delle debolezze strutturali dell’agricoltura UE come la cronica sovra-produzione degli allevamenti e
la dipendenza dal lavoro dei migranti nel settore frutto-orticolo», secondo EEB. Altre criticità
riguardano la zootecnia, per cui non vengono fissati obiettivi di riduzione vincolanti delle emissioni
di gas a effetto serra né limitazioni delle densità degli animali e neppure si prende in considerazione
di promuovere la riduzione del consumo dei prodotti di origine animale quando si parla di diete più
equilibrate.

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