LA DISTRUZIONE DELLA COLLINA VERONESE

E' ben noto al pubblico veronese l'appello che più di una cinquantina di anni fa l'allora sovrintendente Gazzola lanciò per fermare la cementificazione della collina prospicente la città. Come si può osservare dallo sfondo di un quadro di Vitturi (Verona e Ponte Vittoria), l'assalto si fermò ai primi contrafforti della Valdonega e zone limitrofe. Nel resto della provincia, l’assalto non mancò tuttavia di sfigurare l'identità in pietra dei borghi collinari - Negrar e Grezzana ad esempio -, come denunciato già negli anni Sessanta del secolo scorso da Giuseppe Silvestri ed Eugenio Turri. Nella zona da noi descritta (la fascia collinare fino ai 600 metri che si estende dalla Valdadige alla Val d'Alpone e che comprende anche le colline moreniche), dagli anni Ottanta fino alla fine del secolo - complice l'abbandono - all'abbuffata di cemento e asfalto seguì una pausa, caratterizzata dall’avanzata del bosco, soprattutto di roverella, orniello e carpino nero.
Un'altra minaccia, ben più subdola, si stava però delineando agli inizi del Duemila e si materializzò questa volta in forma di vite. Dapprima timidamente e quindi in modo sempre più sfrontato, la viticultura ha fatto tabula rasa di ogni struttura - umana e biologica - non potendo solamente, ma solo per adesso, smussare a proprio piacimento i profili delle montagne. Portiamo l'esempio di quello che sta succedendo attualmente all'Osteria Cacciatore, in via Are Zovo, sopra Quinzano, frazione del Comune di Verona. Ma l'esempio vale per Sant'Ambrogio come per il Maso di Negrar, per Romagnano come per Tregnago, cioè per tutti quei luoghi, e ormai ce ne sono a decine disseminati per la Provincia, che hanno subito ferite irreversibili. La zona citata è stata studiata estensivamente dall'eminente Prof. Ruffo e dai valenti collaboratori del Museo di Storia Naturale di Verona. Uno di questi studi produsse, negli anni Novanta, una carta tematica che da Parona a Grezzana raffigurava la valenza naturalistica delle cosiddette aree xerotermiche (cioè relitti biologici di passate epoche molto calde). Ebbene, oltre al citato valore in termini di biodiversità, dato dalla presenza dei prati aridi, cioè praterie ricche di orchidee selvatiche, in altri studi i suoli delle zone in esame vennero classificati come molto poveri, caratterizzati da un substrato attivo di qualche decina di centimetri. Non per niente il termine dialettale che li indica è quello di vegro.
Eppure le pratiche agronomiche devono avere fatto passi da gigante se oggi è possibile costruire un vigneto su un vegro, cosa ritenuta fino a poco tempo fa ecologicamente impossibile. Il lettore se ne potrà rendere immediatamente conto transitando per via Are Zovo. Qui, a lati della strada, poco prima della Costa del Buso, una fresa frantuma di giorno e di notte un metro di roccia polverizzando così milioni di anni di storia geologica e creando un paesaggio lunare. Viene cancellata per sempre anche la storia biologica, fatta di migrazioni vegetazionali dai quattro punti cardinali a partire dall'ultima glaciazione e in seguito ai cambiamenti climatici: con le piante scompaiono le cenosi di insetti, in primis le variopinte farfalle, decimate poi, con le piante selvatiche stesse, dal cospicuo uso di erbicidi e pesticidi delle decine di trattamenti annuali riservate alle vigne. Non c'è nemmeno un briciolo di pietà per le opere umane: via le marogne (i muretti a secco); via le antiche mulattiere di collegamento, come ad esempio la Strada del Cargador tra i Comuni di Verona e Negrar, via tutte quelle stupende canalizzazioni in marmo che servivano a veicolare la preziosa acqua in un ambiente carsico e parco di precipitazioni (sopra San Giorgio Ingannapoltron, per esempio). Tanto l'acqua per irrigare i moderni vigneti viene ricavata da pozzi artesiani appositamente scavati con le lavorazioni. Le ripercussioni, evidenti e fortissime, si hanno ovviamente anche nella paleontologia e nella archeologia: anche i reperti delle due discipline - il veronese ne è sempre stato ricchissimo - vengono frantumati dalla fresa. Non c'è pietà per alberi monumentali come il Carpino Nero del Maso di Negrar, aspetti paesaggistici caratteristici della collina come i ciliegeti della fascia alta o le marogne della Cola (una volta conosciuta come Arena di Avesa), fatte costruire dal conte Rotari nel 1830, che, nonostante i reiterati richiami da parte del Comune di Verona, devono essere ancora ricostruite.
A poco servono le istituzioni di difesa, come i SIC (Siti di Interesse Comunitario) istituiti dalla Comunità Europea, che comunque sono privi dei Piani di Gestione cioè di quegli strumenti che garantiscono il controllo dell'area protetta: in quello del Vajo Galina e Progno Borago, sopra Avesa, sono stati decimati proprio quegli ambienti, i prati aridi, che dovevano essere difesi. Tipico esempio il vigneto di Ca' Spianazzi (ex Merenghero) censito dal Dr. Bianchini nella Carta della Vegetazione del comune di Verona del 1998 come tipico prato arido veronese.
Dopo questo quadro, ci si chiederà cosa c'entra il terroir con il vino ottenuto con i metodi appena descritti. Saremmo grati se ce lo spiegassero i viticoltori. Nel frattempo la collina veronese è pressoché scomparsa. Per sempre. Trasformata in un deserto biologico come la sottostante pianura, cioè in un terroir (territorio) in cui vivono due o tre colture e tutto il resto della vegetazione è stato fatto scomparire.
Michele Dall'O' e Mario Spezia
Associazione Il Carpino.
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DA L'ARENA DI MERCOLEDì 6 GENNAIO, PAGINA 23