PREZZO DI CITTADINANZA PER LEGGE? SOLO UNA SPERANZA

Giuseppe Fusaro (in foto) su “Terra e Vita” del 30 aprile nell’articolo “Crisi agricole: i prezzi non possono essere inferiori ai costi di produzione” illustra l’inserimento della norma, di cui al titolo dell’articolo, nel testo presentato al Senato per la definitiva conversione del decreto legge 29 marzo 2019, n. 27, con disposizioni urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi.
Secondo Fusaro si tratta di “ una trovata da uovo di Colombo” , che mira “ a tutelare i produttori dai pericoli di contratti capestro che vengono sempre più proposti soprattutto dalla grande distribuzione e che potrebbe essere una applicazione della Direttiva comunitaria sulle pratiche sleali nel settore agricolo, recentemente approvata dalla UE”. Continua poi, illustrando dettagliatamente il contenuto della norma la cui complessità, secondo Fusaro, “mette in evidenza le difficoltà operative che si incontrerebbe subito in fase di attuazione”.
Mi sono letto così l’art. 10-quater, “Disciplina dei rapporti commerciali nell’ambito delle filiere agroalimentari”, del testo della legge di conversione, trasmesso il 18 aprile al Senato per la definitiva approvazione e ho riletto il testo della recente direttiva 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali.
Come prima osservazione, tra le pratiche commerciali sleali elencate dettagliatamente nella direttiva non si fa nessun accenno al caso di prezzi pagati dall’acquirente inferiori al costo di produzione del fornitore, solo nei ‘considerando di apertura’ si richiamano gli squilibri considerevoli nel potere contrattuale tra le due parti nel settore agricolo che, aggiungo io, potrebbero portare anche a quel tipo di squilibrio.
Al primo comma, l’art. 10-quater stabilisce che i contratti stipulati, obbligatoriamente in forma scritta ai sensi dell’art. 62 del D.L. n. 1/2012, secondo le modalità stabilite dal Ministero devono avere, ad eccezione di quelli stagionali e dei contratti di cessione dei prodotti lattiero-caseari e dello zucchero, una durata di almeno 12 mesi. Il secondo dà incarico all’ISMEA di elaborare mensilmente i costi medi di produzione dei prodotti agricoli sulla base di una metodologia approvata dal Ministero. Il terzo, è il comma che ci interessa di più, stabilisce che, qualora manchi almeno una delle condizioni dell’art. 168, comma 4, del Reg. 1308/2013, vale a dire che non siano fissati nel contratto scritto: il prezzo, la quantità e la qualità del prodotto, la durata del contratto, le procedure di pagamento, le modalità per la consegna dei prodotti e le norme a tutela nei casi di forza maggiore, il pagamento da parte dell’acquirente di un prezzo significativamente inferiore ai costi medi di produzione costituisce una pratica commerciale sleale. Il quarto fissa la sanzione, che può essere molto pesante, perché può arrivare fino al 10% del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio da parte dell’acquirente. Il quinto stabilisce che l’Autorità garante della concorrenza provvede d’ufficio o su segnalazione all’accertamento della violazione e conclude il procedimento inderogabilmente entro 90 giorni, con la partecipazione anche dell’associazione di categoria del cessionario.
Fusaro ha ragione quando scrive che l’articolazione e il dettato della norma evidenziano le difficoltà operative che incontrerebbe l’ applicazione, perché cosa si intende per pagamento di un prezzo significativamente inferiore rispetto al costo medio? Inoltre, tutti sanno le difficoltà di calcolare un costo medio rappresentativo, rispetto a cosa, alla dimensione delle aziende, alla specializzazione produttiva, al livello di tecnologia applicato, all’area dove le aziende operano, ecc? Da sottolineare poi, che il pagamento di un prezzo significativamente (?) inferiore a quello medio (?) deve essere accompagnato dalla mancanza in contratto di almeno una delle prescrizioni, sopra elencate, previste dall’art. 168 del Reg. 1308/3013, perché possa costituire una pratica commerciale sleale.
Qualcuno forse ricorderà che il famoso art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 27, noto soprattutto per aver fissato termini perentori di pagamento per i prodotti alimentari deperibili e non deperibili, al comma 2 stabilisce che è vietato “imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive”. Certamente imporre un prezzo di acquisto inferiore al costo di produzione è una condizione gravosa per il fornitore, ma è noto che nel corso degli anni di applicazione della norma non si conoscono ricorsi né interventi dell’Autorità garante della concorrenza provocati da questa fattispecie, malgrado le organizzazioni professionali, in particolare la Coldiretti, abbiano più volte denunciato lo strapotere della controparte, soprattutto della GDO.
Temo proprio che l’introduzione di quella norma nella legge di conversione del D.L. n. 27/2019, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi’, non possa essere “una trovata da uovo di Colombo”, come l’ha definita Fusaro, per porre un limite alla debolezza contrattuale dell’imprese agricole di fronte allo strapotere della distribuzione moderna. Certamente è una strada su cui bisogna lavorare ancora come indicato dalla Commissione Europea con ben tre comunicazioni sugli squilibri della filiera agroalimentare, dai principi di buona prassi nelle relazioni verticali presentati nel 2011 dal Forum di alto livello per un migliore funzionamento della filiera alimentare e ora anche dalla Direttiva n. 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali. Per il momento, temo che quella norma possa solo far sperare.