È un fazzoletto di terra. Quattordicimila metri quadrati di vigneto in leggera pendenza a Baver, frazione di Godega Sant'Urbano, provincia di Treviso. Qui, per la prima volta, una soprintendenza ha emesso un vincolo non a tutela di un bene materiale — un quadro, un'architettura, un territorio — ma di uno immateriale: una tecnica di coltivazione, un sapere che si trasmette da centinaia di anni. Il vigneto non è impiantato su pali, ma sfila aggrappato ad aceri e gelsi (è la "vite maritata"). I legacci sono in vimini e non in materiale sintetico. I trattamenti sono a base di rame, calce e zolfo. Niente prodotti chimici. Sono conservate le siepi e le fasce boscate. In mezzo alle viti spuntano alberi da frutto. I vitigni sono diversi, non solo prosecco, ma bianchi e rossi: recantina, turchetta, traminer, trebbiano, bianchetta, merlot, tocai, verdicchio...
Il vincolo l'ha proposto la soprintendente storico-artistica delle province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, Marica Mercalli. Materialmente l'ha emesso il direttore regionale dei Beni culturali del Veneto, Ugo Soragni. È un vincolo etnoantropologico. I suoi riferimenti sono il Codice dei beni culturali e una convenzione Unesco. Soragni spiega che questa tutela è più forte di quella paesaggistica: «Se un futuro proprietario volesse abbandonare il terreno o modificare le piantagioni, potrebbe intervenire la Guardia forestale e imporre il ripristino». Le viti ultracentenarie possono morire ed essere ripiantate, ma sempre "maritate" agli aceri. Il vigneto è diviso in tre parti, ognuna con un sonante toponimo: i più antichi, Zhercol, Talpon, il più recente Talponet. È addossato al centro abitato e il Comune di Godego, a guida leghista, aveva previsto nell'agosto del 2012 di estendere l'edificabilità al nucleo più antico della proprietà. Ne è nata una mobilitazione, sostenuta da Italia Nostra, dal Wwf e dall'associazione culturale Borgo Baver. È intervenuta la Fondazione Benetton. Favorevole alla trasformazione edilizia era il proprietario del vigneto. Contrario chi il vigneto lo lavorava e lo lavora, Augusto Fabris, una laurea in Storia, maestro elementare e figlio di Andrea, il contadino che prima come mezzadro, poi come affittuario per oltre cinquant'anni aveva ereditato e conservato le tecniche di coltivazione, raccontandole al figlio.
L'associazione Borgo Baver chiese l'intervento della soprintendenza. Che, studiata la storia del vigneto, ha accertato che era un raro esempio di viticoltura tipico dell'antica piantata trevigiana, attestata nei documenti (un catasto napoleonico del 1811), nelle fotografie (quelle del linguista-etnografo Paul Scheuermeier) e nelle raffigurazioni pittoriche. «È un museo vivente », spiega Marica Mercalli, «dove si esprimono conoscenze locali e gesti del mestiere, espressione di uno stile di vita che dà sostanza al patrimonio culturale di un territorio».