Geni contro natura

Intervista. Dopo gli attacchi del fronte pro-Ogm in seguito a un articolo sugli squilibri ambientali generati dall’uomo che alterano pericolosamente gli ecosistemi, torniamo sull’argomento con il genetista Salvatore Ceccarelli.

Attraversiamo una fase in cui cambiamenti climatici, squilibri ambientali e pandemie ci impongono profonde riflessioni sul nostro rapporto con la natura. Questo articolo nasce dall’esigenza di rispondere alle critiche che ci sono state rivolte da parte del fronte pro-Ogm quando – in un pezzo pubblicato su l’ExtraTerrestre del 12 marzo 2020 – abbiamo attribuito agli Ogm un ruolo nell’alterazione degli ecosistemi e, quindi, nel contribuire a determinare quegli squilibri ambientali che favoriscono il passaggio di agenti patogeni dagli animali all’uomo. Per mettere a fuoco alcune delle questioni che riguardano gli Ogm abbiamo chiesto il contributo del professor Salvatore Ceccarelli. Già docente di «Risorse genetiche» e «Miglioramento genetico» all’Università di Perugia, ha pubblicato numerosi studi scientifici sul ruolo strategico della biodiversità, partecipando in diverse aree del mondo a progetti mirati a favorire le produzioni agricole sostenibili e l’introduzione di colture in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici.
Professor Ceccarelli, che idea si è fatto della pandemia di Covid-19? Può essere messa in relazione con gli squilibri ambientali che stanno caratterizzando il pianeta?
Non essendo né un virologo né tanto meno un medico, non posso parlare della pandemia da un punto di vista tecnico. Quello che mi ha colpito è stata l’imbarazzante impreparazione di una scienza che sembrava onnipotente e che allo stesso tempo non ha rinunciato ad un protagonismo altrettanto imbarazzante. Spero che serva per fare un bagno di umiltà – non dobbiamo mai dimenticare che siamo solo lo 0,01% della massa di tutti gli altri esseri viventi. Che il clima abbia effetti sull’intero ecosistema e sulla salute umana è ormai fuori di dubbio ed è sorprendente come soltanto pochi sembrano rendersene conto. Un aspetto preoccupante è che questi aspetti non sono prevedibili come non è quantitativamente se non su scala molto grande il cambiamento climatico. Per cui non possiamo escludere che il Covid-19 sia in relazione con gli squilibri ambientali.
In che modo gli squilibri ambientali possono favorire il passaggio di patogeni dagli animali all’uomo?
Un report di Lancet nel 2018 è stato interamente dedicato all’effetto del cambiamento climatico sulla salute umana. Oltre ad un effetto diretto – nel 2015 le polveri sottili sono state responsabili di 2,9 milioni di morti premature di cui 460.000 (il 16%) direttamente imputabili all’uso del carbone – per non parlare degli eccessi di temperatura, delle inondazioni e degli incendi, ci sono quelli indiretti, per esempio sulla biodiversità. Questi ultimi costringono gli animali a spostarsi dai loro habitat naturali entrando in contatto con l’uomo (si pensi per esempio alla deforestazione e alla siccità) e allo stesso tempo il cambiamento climatico, dice testualmente Lancet, «ha conseguenze su tutti gli aspetti della vita umana alterando l’andamento delle malattie infettive».
Possiamo affermare che esiste un problema di contaminazione genetica che contribuisce a determinare gli attuali squilibri ambientali? Le coltivazioni degli Ogm e le tecniche impiegate hanno prodotto alterazioni documentate sugli ecosistemi.
Il caso studiato più a lungo è quello della contaminazione delle varietà tradizionali di mais del Messico con mais Ogm importato illegalmente dagli Stati Uniti, minacciando il potenziale evolutivo del mais nel centro di origine della specie e quindi la sua capacità di adattarsi alla complessità del cambiamento climatico.
Le monocolture Ogm, come lei ha spesso evidenziato, vanno a scapito della biodiversità, determinando una uniformità produttiva che mette a rischio la sicurezza alimentare.
La biodiversità è uno dei «confini planetari sicuri» che è già stato sforato. Gli Ogm non sono altro che l’ultimo traguardo di una corsa verso l’uniformità che ha contrassegnato tutto il miglioramento genetico delle piante. Il risultato è che da un lato soltanto tre colture, riso, frumento e granturco, ci forniscono circa il 60% delle calorie e circa il 56% delle proteine, rispettivamente che vengono dai vegetali, mentre utilizzano quasi il 50% di tutta l’acqua usata per l’irrigazione. Dall’altro, le varietà di queste tre specie sono geneticamente uniformi, cioè un campo di grano o di granturco o di riso è fatto di piante tutte geneticamente uguali. La medicina ci dice che per una composizione e diversità ottimale del nostro microbiota, da cui dipendono le nostre difese immunitarie – di cui si è parlato molto in queste ultime settimane – è importante avere una dieta quanto più varia possibile. Come si fa se l’agricoltura è dominata dall’uniformità? Tra l’altro, il rapporto annuale di FAO, UNICEF, IFAD, OMS, WFP, ci dice che dopo anni di lento ma costante declino, dal 2014-2015 il numero delle persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare. Quindi non è vero che l’agricoltura industriale è necessaria per sfamare il mondo.
Lei ha molto lavorato in questi anni per favorire un «miglioramento genetico evolutivo» per consentire agli agricoltori di riappropriarsi dei semi e di tutte le conoscenze a essi legate.
Il miglioramento genetico evolutivo è nato molti anni fa (1956). Noi lo abbiamo adottato come reazione al fatto che molte istituzioni non volevano saperne di quello partecipativo anche se ne avevamo dimostrato efficacia ed efficienza. Il riappropriarsi dei semi e di tutte le conoscenze ad essi legate da parte dei contadini è un aspetto importante. Ma è anche importante che, a differenza delle varietà uniformi come le varietà moderne, gli Ogm e i prodotti delle Nbt (New breeding techniques) che dal punto di vista evolutivo sono delle mummie, le popolazioni evolutive sono capaci di evolversi diventando gradualmente più produttive e più resistenti a malattie e insetti, adattandosi al cambiamento climatico nella sua straordinaria complessità. Infatti, con il cambiare di temperatura e piovosità, cambiano malattie, insetti (compresi gli impollinatori) e le piante infestanti: il tutto come dicevo prima, in modo imprevedibile e diverso da luogo a luogo. In altre parole, ad un problema in continua evoluzione, le popolazioni evolutive offrono una risposta in continua evoluzione.
Attualmente si manifestano forti pressioni per impiegare la tecnica del «gene editing» (correzione dei geni) nota come CRISPR. Lei ha sollevato dubbi e perplessità su questa tecnica che può produrre alterazioni cromosomiche con conseguenze patologiche. Negli organismi vegetali potrebbe portare a sviluppare resistenze a malattie, insetti ed erbe infestanti.
Non solo il gene editing provoca mutazioni (anche cromosomiche) non controllate – l’ultimo lavoro che ne parla è uscito il 12 febbraio scorso su Science Advances – ma come può modificare i caratteri cosiddetti quantitativi, cioè quelli controllati da molti geni distribuiti su tutti o su molti cromosomi? Questi non includono solo caratteri agronomicamente importanti, come la produzione, la resistenza a siccità, salinità, ristagno di acqua, ma anche alcune malattie come dimostra un lavoro recente su una malattia importante dell’orzo. Infine, nel caso di caratteri semplici, innescano un processo di evoluzione da parte dell’organismo che intendono controllare, per cui nel migliore dei casi rappresentano una soluzione di breve durata che a sua volta crea un problema via via più complesso. In altre parole, stiamo parlando di un principio biologico basilare, il Teorema Fondamentale della Selezione Naturale che dice che se l’ambiente che circonda gli organismi viventi cambia, quegli organismi, se hanno sufficiente diversità genetica, si evolvono per adattarsi al nuovo ambiente.
I cambiamenti climatici impongono la scelta di varietà in grado di resistere a siccità, insetti ed altri patogeni. Gli Ogm e la tecnica del «gene editing» non sembrano in grado di far fronte a queste esigenze. Come si può affrontare il problema?
La complessità del cambiamento climatico implica un cambiamento di tutto l’ecosistema – si pensi solo alla dipendenza dai fattori climatici delle molteplici e mutevoli interazioni ospite-parassita nel caso delle malattie, o delle interazioni con i nemici naturali nel caso degli insetti, o delle infestanti che in condizioni ambientali nuove diventano resistenti agli erbicidi – senza considerare la sua imprevedibilità e la sua specificità territoriale. Ad un problema così complesso che varia da luogo a luogo è difficile pensare che si possa rispondere con soluzioni che, per dirla in termini evoluzionistici, sono alla portata delle capacità evolutive degli organismi che si intende controllare. A questa obiezione si risponde che negli Ogm e Nbt si possono accumulare più geni per rendere la soluzione più durevole, ma ciò non fa altro che spostare il problema selezionando via via gli organismi capaci di superare barriere più complesse. Le popolazioni evolutive, purché evolvendosi mantengano sufficiente diversità genetica – di qui l’importanza degli scambi di semi tra contadini – consentono a questi organismi di riprodursi perché prima o poi qualche pianta suscettibile la trovano, e quindi non li pongono di fronte alla necessità di evolversi. Nello stesso tempo i danni sulla coltura sono talmente limitati da non richiedere l’uso della chimica: le popolazioni evolutive diventano così, allo stesso tempo, uno strumento di mitigazione dell’effetto serra e di adattamento alla complessità del cambiamento climatico. Vorrei concludere citando un lavoro pubblicato circa 20 anni fa su Evolution: «Human as the World’s Greatest Evolutionary Force» ma che sembra scritto ieri. Dice testualmente: «L’impatto ecologico dell’uomo ha enormi conseguenze evoluzionistiche e può accelerare enormemente i cambiamenti evolutivi delle specie che ci circondano, e in particolare degli organismi che causano malattie, dei parassiti delle piante e delle specie che catturiamo per scopi commerciali».

tratto da: https://ilmanifesto.it/luomo-crea-malattie/