La guerra in Ucraina, il prezzo del cibo e l’attacco alla transizione ecologica

 L’emergenza climatica, la pandemia, il caro energia e ora la guerra in Ucraina. Quattro crisi sovrapposte stanno generando effetti a catena sulle filiere internazionali delle materie prime alla base del sistema agroindustriale. Negli ultimi mesi abbiamo visto i prezzi del gas crescere a dismisura, intere catene di approvvigionamento spezzarsi sotto l’urto del Covid, i prezzi del grano e di altre commodities schizzare alle stelle per il combinato disposto di cambiamento climatico, speculazioni di borsa e conflitto in Ucraina.

In questa tempesta perfetta si moltiplicano le voci dei rappresentanti dell’industria che chiedono una maggiore protezione dalle turbolenze del mercato internazionale e una riduzione della dipendenza dalle importazioni di questi beni. Per il mondo ecologista – pur nella consapevolezza della spirale drammatica in cui gli eventi stanno precipitando le società – è certamente un sollievo vedere aprirsi un ragionamento sulla rilocalizzazione dei processi produttivi. La transizione ecologica, infatti, deve passare per una riduzione dei flussi di materia e di energia che attraversano i sistemi economici. Accorciare le filiere è parte di questa strategia, coerente con una ricerca della pace e una riduzione della competizione sfrenata.

Tuttavia, non è questo lo scenario che hanno in mente i grandi gruppi di interesse, almeno quelli che influenzano la struttura del sistema alimentare. Le proposte avanzate in questi ultimi giorni, infatti, non vanno nella direzione di una trasformazione del modo insostenibile di produrre e consumare il cibo: si limitano alla richiesta di farlo sul continente europeo piuttosto che altrove. Lo stesso presidente del Consiglio, Mario Draghi – che ha incontrato ieri il Ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli – ha detto durante il question time di oggi alla Camera dei Deputati che in maniera simile all’energia, anche per l’agroalimentare bisognerà “diversificare” e aumentare la produzione europea. Tuttavia, ha aggiunto, “non è facile aumentare la superficie coltivabile sulla base dei regolamenti comunitari, quindi occorrerà, anche in questo caso, riconsiderare“.

L’incubo della guerra viene dunque strumentalizzato per cavalcare il clima di angoscia e preoccupazione che ci attanaglia, con lo scopo di ottenere un allentamento delle normative ambientali in vigore nel vecchio continente e sfruttarne il territorio per proseguire con una produzione agricola industriale basata su energie fossili, fertilizzanti chimici, monocolture standardizzate e allevamenti intensivi. E’ un tentativo di approfittare del momento per dare una spallata alla transizione ecologica, non per accoglierla e promuoverla. Ma andiamo con ordine.

Perché aumentano i prezzi del cibo e qual è il ruolo della guerra in Ucraina

Nelle ultime settimane i media si sono occupati spesso dell’impatto dell’invasione russa sul mercato globale dei beni alimentari e del relativo aumento dei prezzi. Cosa sta succedendo davvero? Un rapporto dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), uscito il 1 marzo, mette a fuoco le diverse cause all’origine di questo picco dei prezzi di grano, mais, fertilizzanti e altri prodotti scambiati sul mercato internazionale.

Secondo l’ISMEA, lo scoppio del conflitto si è innanzitutto inserito in un contesto di “tensioni scatenate da un insieme di fattori di tipo congiunturale, geopolitico e non ultimo speculativo, che rendono l’Italia particolarmente vulnerabile in ragione dell’alto grado di dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti di grano e mais”. Grano duro (l’ingrediente base della pasta, per intenderci), grano tenero (con cui facciamo il pane) e mais (con cui si alimentano gli animali negli allevamenti) hanno raggiunto prezzi senza precedenti, superando addirittura i picchi raggiunti nella crisi del 2008. Le cause però, come detto, sono diverse:

  • l’aumento dei prezzi del grano duro è figlio del crollo della produzione canadese, che ha segnato un -60% nel 2021 rispetto al 2020. La causa? Una siccità prolungatache ha fatto collassare i raccolti, riducendo le scorte globali, fatto che dimostra come i fenomeni climatici estremi sempre più intensi possano avere un impatto deflagrante su sistemi alimentari basati sulle filiere lunghe. Il problema, infatti, è che il nostro paese dipende fortemente dalle importazioni di grano duro, perché produce solo il 60% di quello che utilizza.
  • Lo stesso vale per il mais, principale ingrediente nelle mangiatoie degli animali allevati, per il quale il tasso di autoapprovvigionamento è ancora inferiore: poco più della metà di quello utilizzato è prodotto sul territorio nazionale. Va detto che dall’Ucraina acquistiamo soltanto il 13% delle nostre importazioni di mais e che i forti rincari sono iniziati mesi fa con la ripresa della domanda cinese a seguito dell’epidemia di peste suina.
  • Il grano tenero è il vero tallone d’Achille, con appena un 35% di materia prima made in Italy. Di buono c’è che le importazioni italiane dipendono solo per il 6% dal grano tenero prodotto nei due paesi est europei. Il boom dei prezzi, infatti, non ha come causa diretta il conflitto, quanto piuttosto la speculazione finanziaria: il grano tenero (come il mais e altre commodities) è infatti quotato in borsa e oggetto di contratti a termine denominati futures, il cui valore è soggetto saliscendi speculativi, che impattano però sull’economia reale.
  • La vera esposizione dell’Italia con l’Ucraina è sull’olio di girasole, impiegato nella produzione di conserve, salse, maionese e altri prodotti destinati alla grande distribuzione. Inoltre, i ristoranti lo utilizzano in grandi quantità per le fritture. Più di un terzo del nostro consumo annuo (770 mila tonnellate nel 2021 secondo ASSITOL) è coperto dalla produzione del paese est europeo. Da noi se ne producono 250 mila tonnellate, quello che rimane viene da fuori, il 63% proprio da Kiev (circa 330 mila tonnellate).

A tutto questo si aggiunge l’aumento dei costi di trasporto. Questi ultimi derivano da una crescita dei costi dell’energia e da una ripresa della domanda mondiale dopo la prima ondata pandemica, che secondo ISMEA ha determinato “problemi organizzativi nei principali scali mondiali” con “gravi rallentamenti delle catene di fornitura” e “aumenti vertiginosi dei costi dei trasporti e dei noli dei container”.

Gli effetti della guerra in Ucraina, comunque, al netto della speculazione e degli altri fattori (rimbalzo della domanda globale post-Covid e picco dei prezzi energetici), contribuiscono a rendere instabile il mercato internazionale e potrebbero peggiorare nel prossimo futuro. Questo perché, anche se con il nostro paese le relazioni commerciali sono solo relativamente importanti (l’Italia assorbe appena il 3% dell’export agroalimentare ucraino), Kiev e Mosca esportano il 30% del grano tenero globale e riforniscono molti paesi in Medio Oriente e Nord Africa. Libano, Egitto, Tunisia, Yemen ed Etiopia, ad esempio, coprono con la produzione russa e ucraina dal 40 al 95% delle loro importazioni. E anche se il governo Zelensky haannunciato che esporterà più dell’anno passato (23 milioni di tonnellate di grano tenero e 33 di mais, più o meno in linea con le ultime stime dell’International Grain Council del 17 febbraio), la situazione attuale rende difficile prevedere se le promesse saranno mantenute. Lo scoppio del conflitto ha provocato infatti un “terremoto” nel settore del commercio marittimo, interrompendo le rotte, deviando le navi mercantili e facendo aumentare i costi, con conseguente aumento dei prezzi al consumo. Un prezzo che potremo pagare anche noi.

Come sta rispondendo l’Europa

Esiste quindi un potenziale effetto domino che la guerra in Ucraina può innescare, se dovesse protrarsi l’incertezza negli scambi di materie prime. Lo spettro di un blocco russo dei porti nel Mar Nero e nel Mar d’Azov, da cui partono i mercantili ucraini, ha messo in allarme le istituzioni europee, gli agricoltori e l’industria alimentare.

Il 2 marzo scorso si è tenuto un consiglio straordinario dei Ministri dell’Agricoltura europei, al termine del quale la richiesta è stata di “liberare la capacità produttiva dell’UE” per ridurre la dipendenza di materie prime dall’estero. Una frase apparentemente innocua, che tuttavia ha un significato molto preciso se collegata alla dichiarazione rilasciata poco dopo in conferenza stampa dal Commissario UE all’Agricoltura Janusz Wojciechowski. Il Commissario ha garantito che l’esecutivo europeo analizzerà l’impatto delle strategie europee Farm to Fork e Biodiversità sulla sicurezza alimentare, facendo intendere che i vincoli ambientali in esse contenuti (riduzione di pesticidi e fertilizzanti chimici, aumento dell’agricoltura biologica e delle quote di superficie agricola da tenere “a riposo”) potrebbero essere d’impaccio per la produzione alle prese con la crisi.

Cosa non va esattamente nelle strategie cardine varate dalla Commissione Von der Leyen per concretizzare il Green Deal europeo nel settore agricolo e alimentare? La critica della potente lobby Copa-Cogeca, che riunisce le associazioni agricole di categoria e le cooperative agroalimentari dei 27 paesi, si concentra su un punto in particolare: il vincolo del 10% di superficie agricola da lasciare incolta su ogni terreno arabile. Questa prescrizione doveva servire ad evitare che l’agricoltura industriale, con le sue monocolture, togliesse anche il minimo spazio a specie selvatiche come uccelli, farfalle, api e altri insetti fondamentali per l’agricoltura e gli ecosistemi.

Ciononostante, il tentativo di destinare una quota della superficie agricola alla biodiversità è stato rapidamente sterilizzato: il vincolo del 10% è stato eroso attraverso la Politica agricola comune (PAC), cioè l’insieme di regolamenti che avrebbe dovuto garantire la “messa a terra” delle strategie Farm to Fork e Biodiversità. Infatti, Il pacchetto approvato dalle istituzioni europee e dai governi nazionali lo scorso giugno indica che in ogni azienda agricola “almeno il 3% dei seminativi sarà dedicato alla biodiversità e agli elementi non produttivi”.

Non pago, Copa-Cogeca ha chiesto il 7 marzo di “poter coltivare tutta la terra disponibile nel 2022 per compensare il blocco della produzione russa e ucraina. Tutto deve essere fatto per prevenire interruzioni nelle catene di approvvigionamento, che porteranno inevitabilmente a carenze in alcune parti del mondo. Questa è una questione essenziale di sovranità alimentare e stabilità democratica”. Una posizione molto simile a quella della Federazione dei sindacati agricoli francesi (FNSEA), che detiene la presidenza del Copa-Cogeca in questa fase, e che il 2 marzo ha severamente ammonito i Ministri dell’Agricoltura riuniti in consiglio: “In primo luogo – si legge nel comunicato della FNSEA – la logica della decrescita auspicata dalla strategia europea Farm to Fork deve essere profondamente messa in discussione. Al contrario, dobbiamo produrre di più sul nostro territorio, produrre in modo sostenibile, ma produrre. In secondo luogo, va immediatamente messo in discussione l’obbligo nella futura PAC di destinare il 4% [sic!] alle aree cosiddette ‘non produttive’”.

L’Italia si è accodata a questa richiesta di “sovranità alimentare” con tutte le associazioni di categoria e le alleanze di cui fanno parte. Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia (alleanza che va dalla Coldiretti al Conad), intervistato dal Corriere della Sera parla della transizione ecologica come di una “strategia miope di smantellamento della produzione agricola europea senza la minima valutazione d’impatto”.

Una narrativa, come abbiamo visto, sposata anche dal Commissario UE Wojciechowski, dal nostro Ministro Patuanelli e dal Presidente Mario Draghi. Le loro affermazioni sembrano però contraddette dai dati recentemente diffusi dalla Commissione europea, secondo cui il continente produce più cereali nel complesso di quanti ne consumi, ed è già autosufficiente per quanto riguarda grano tenero, orzo e segale, mentre importa il 20% del consumo totale di mais e grano duro. Quanto potrà pesare la soppressione di quel vincolo del 3% su un sistema che sembra aver raggiunto già i suoi limiti? Quanti ettari ancora devono essere destinati a colture proteiche per l’alimentazione animale? Nell’Unione già oggi quasi tre quarti dei terreni agricoli sono utilizzati per mangimi: la soluzione prospettata da questi gruppi di interesse è produrne ancora di più, per foraggiare “in sicurezza” l’industria dell’allevamento intensivo. Quella che stanno conducendo non sembra dunque una battaglia per il diritto al cibo o la sovranità alimentare, ma una battaglia per proseguire business as usual su una china insostenibile per tutti.

La dottrina dello shock e il destino della transizione ecologica

La crisi e la guerra, in questo quadro, diventano un pretesto per rimettere in discussione l’impianto normativo europeo in campo climatico e ambientale. Un impianto già largamente insufficiente, eppure osteggiato dalle imprese. Basti prendere, a titolo di esempio, ledichiarazioni rilasciate da Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, alla trasmissione Mezz’ora in più domenica scorsa: per Bonomi, di fronte ai potenziali impatti di questo conflitto “bisogna essere realisti, allungare i tempi e spostare gli obiettivi della transizione ecologica”.

Somiglia molto come stile a quello che Naomi Klein ha definito “capitalismo dei disastri” nel suo celebre saggio The Shock Doctrine. Una macchina di interessi che si mette in moto quando le crisi sconvolgono le società per ottenere privatizzazioni, deregolamentazione e taglio delle tutele sociali. In questo caso il processo sembra avvenire perfino tramite l’appropriazione, da parte dell’agroindustria, dei termini e dei concetti propri dei movimenti contadini, come la sovranità alimentare. Nata nel 1996, questa proposta non ha niente a che fare con l’intenzione di coprire ogni metro quadro disponibile in Europa con monocolture destinate agli allevamenti intensivi. E’ invece la proposta di un’agricoltura ecologica, su scala più ridotta, diversificata e orientata al mercato locale. Un settore agricolo così composto, votato fra l’altro alla produzione di cibo più che di mangimi (che invece occupano quasi tre quarti della superficie agricole europea), sarebbe più resistente agli shock e meno esposto ai picchi di prezzo, più sostenibile e a maggiore intensità di lavoro. Questa è la rilocalizzazione di cui abbiamo bisogno. Ciò su cui dobbiamo investire con urgenza, come scrivono anche i ricercatori di ARC2020, è “una nuova infrastruttura territoriale per la produzione e la trasformazione del cibo, che trasformi il complesso agroindustriale in un sistema di approvvigionamento decentralizzato resiliente”. La guerra in Ucraina ci rivela infatti l’estrema vulnerabilità di un sistema alimentare globalizzato, incapace di garantire tanto la sicurezza quanto la sovranità alimentare.


Fabio Ciconte


Fonte: Associazione Terra - 09.03.2022